martedì 23 settembre 2008

Intervista: "Under the radar", il nuovo album-diario di Daniel Powter / Interview: "Under the radar", the new album-diary of Daniel Powter


Roma, 21 set – Autenticità, verità. Come in un diario, come in una confessione. È questo il sentimento che pervade “Under the radar” il nuovo disco di Daniel Powter, in uscita in questi giorni in Europa e negli Stati Uniti a inizio 2009. Il cantante canadese torna sulla scena musicale dopo una lunga assenza che in molti, però, non hanno avvertito, con quella “Bad Day”, successo interplanetario del 2005, ancora in testa. Powter, però, dice di non voler rimanere legato a quella canzone “che ormai non sento più mia, non ne ho più la proprietà”, per questo ha “messo in gioco tutto” e si è preso il tempo giusto per tornare. E lo fa in grande stile, con un album pieno di canzoni solari che affrontano, però, temi importanti ripercorrendo la vita di Powter. “L’album si apre con la mia canzone preferita – racconta Powter, riferendosi a “Best of me” (il meglio di me) – la prima a cui ho lavorato, in cui dico subito di non essere perfetto, di aver fatto tanti sbagli, ma di essere riuscito a tirarmi fuori anche dal periodo in cui ero dipendente dalla droga”. Schiavo della cocaina per otto anni, Powter è riuscito a liberarsi e a tornare pulito. Proprio questa, dice, è la sua migliore qualità, il suo “best of me” è proprio “il coraggio di non arrendersi, di continuare, di chiedere scusa e di essere umano, ammettendo di essere imperfetto”. Nel disco oltre al pianoforte, strumento che Powter suona fin da bambino, ci sono tante chitarre e anche musica elettronica, cosa che ha stupito il cantautore, ma non Linda Perry, chitarrista, autrice di canzoni, produttrice e artefice dei cambiamenti artistici di Gwen Stefani e Christina Aguilera a cui anche Powter deve molto. “Lei è una donna forte ed energica, mi ha chiesto tantissimo, mi ha svuotato, abbiamo lavorato anche 12 ore al giorno, abbiamo pianto e abbiamo riso insieme. Soprattutto mi ha chiesto di essere vero, di essere me stesso”. Compito in cui Powter è riuscito benissimo, con canzoni come “Am I still the one?”, in cui la lotta contro la droga diventa la ricerca della speranza, in un duetto con la stessa Perry. “È un album in cui ho rischiato molto, non volevo fare delle normali canzoni pop, volevo entrare in contatto con le persone, per questo è stato necessario aprirsi e aspettare tanto dal successo di Bad Day”. Tra le canzoni Powter ama citare “Whole world around”, in cui la musica diventa un sentimento di unità tra i popoli che nonostante le differenze hanno in comune la ricerca dell’amore e di un’eredità da lasciare al mondo C’è poi il tema del viaggio: “Not coming back”, in cui la paura è quella di non tornare indietro. “L’ho scritta pensando di guidare la mia auto, tutto il disco in realtà è bello da ascoltare guidando, è una compagnia che pretende di essere ascoltata con attenzione”. Il viaggio, ma qui si tratta di un ritorno, è protagonista anche di “Next plane home” (il prossimo aereo per casa), in cui Powter vuole tornare a casa dove ha lasciato una persona importante. E adesso che è in Italia vuole tornare a casa? “No, stai scherzando? – risponde ridendo – Non lascerei mai questo posto, amo l’Italia, qui la gente vive meglio, è una vera gioia essere qui, ho tanti bei ricordi di viaggi precedenti e non vedo l’ora di tornare in primavera per riempire l’Italia di musica con i miei concerti”.

lunedì 15 settembre 2008

Dentro, la musica - Reportage da Rock in Rebibbia

Un “canto libero” si alza dalle mura e dalle sbarre, dalle recinzioni e dalle torrette. Dopo ogni cosa è diversa. Per tutti, anche per me che a Rebibbia ci sono stato solo un pomeriggio. Eppure…Non riesco a smettere di pensarci, il cuore non cessa di battere. Tutto così strano. Tutto così normale.

Arrivare dentro

Ho camminato fino alla pesante struttura del carcere, l’immensa costruzione inglobata dalla città, nascosta, ma allo stesso tempo visibile a tutti. L’ingresso è imponente, il viale d’accesso, via Raffaele Majetti, fa impressione per la sua larghezza e l’assenza di automobili, se non quelle della polizia penitenziaria e della volante dei carabinieri che arriva a sirene spiegate. Cammino vicino al muro di cinta non più alto di quello di una villa, vedo spuntare una rete da calcio. Seguo la recinzione fino all’ingresso del Nuovo Complesso. Da qui non si vedono celle o sbarre evidenti, sembra quasi di trovarsi davanti a un luogo come un altro. Controllano il mio nome, prendono il documento e dopo una rapida perquisizione sono dentro. Percorro un piccolo spiazzale da solo, poi, davanti a una grande porta blindata, che intuisco essere la vera entrata, mi aspettano alcune guardie pronte a portarmi nel luogo prestabilito. Sembrano quasi divertite davanti ai miei sguardi che si posano sulle porte di ferro, sui cancelli con le sbarre, sui monitor della sicurezza. Una di loro mi accompagna lungo un corridoio con pieno di trompe l’oeil sulle pareti per simulare rovine romane e di teche piene di reperti trovati durante la realizzazione della prigione. “Come le sembra?” mi chiede il secondino. “Qui quasi bello – rispondo – diverso da come s’immagina”. Sorride: “È quello che fanno vedere alle autorità, il resto non è così…non è male, ma…un po’ differente”. Annuiscono: “Tornerò a vedere il resto, allora” rispondo. Poco dopo sono fuori, in un grande, immenso cortile che per la cura architettonica sembra quasi la piazza di una tranquilla cittadina di provincia, con scale, panchine, vasi pieni di fiori. Davanti alla chiesa, rialzata da pochi scalini c’è una zona dove è stato allestito un palco. Nello spiazzo antistante non c’è ancora nessuno, ma i ragazzi sono già vicino agli strumenti a confabulare. È così che conosco i componenti del gruppo nato grazie al programma di Mtv, Rock in Rebibbia. Detenuti con la passione per la musica che hanno trovato il modo di evadere per qualche ora dalle loro celle. Se appena arrivato sono rimasto un po’ sulle mie è bastato poco a sciogliermi. Li avevo visti in televisione, avevo letto le loro storie, mi ero commosso. Dal vivo è stato più forte, un pugno nello stomaco. Perché la loro simpatia e il loro entusiasmo mi hanno subito coinvolto.

Musica d’evasione

I primi che conosco sono Valentino e Rocco, tastierista e bassista del gruppo, entrambi con indosso la maglietta del September Festival che organizza questo concerto, come molti altri in giro per Roma oggi per ricordare l’attentato dell’undici settembre. Subito mi raccontano la loro passione per la musica, scoperta grazie al programma che per quattro mesi ha portato grandi nomi del pop e del rock a esibirsi con loro, ma, soprattutto, gli ha dato modo di far conoscere le loro storie. “Siamo un po’ fuori forma, qualche accordo salterà di sicuro” dice Valentino, un ventiquattrenne simpatico e un po’ grassottello, coinvolgente con la sua allegria. “È da aprile che i maestri se ne sono andati e abbiamo provato poco – continua –. Ci sono sempre problemi organizzativi, è difficile ritrovarsi. Però vogliamo continuare, anzi, mi piacerebbe portare la band in tournèe. In molti ci apprezzano, ma ci sono stati cantanti che hanno detto: ‘come, noi tanti anni di gavetta e questi, il peggio della società, che si mettono a fare i musicisti su Mtv’. Per fortuna non la pensano tutti così”. Valentino è rumeno, della Transilvania, appena arrivato in Italia è diventato elettricista, poi ha perso il lavoro. Le difficoltà insormontabili l’hanno portato a provare la strada del crimine, ma è stato arrestato prima per truffa senza finire in carcere e poi è arrivata la condanna a tre anni per aver rubato un’auto. Ora ha capito che per il crimine non è proprio portato. “Siamo pronti per questo concerto per la pace” dice Rocco. Capelli brizzolati e pizzetto, un volto quasi cinematografico. Ha trentadue anni, ma sembra più grande, il carcere invecchia e lui qui ha passato dodici anni, dopo un tentativo di furto finito male, con la morte di un maresciallo. Allora era un ragazzo, adesso è un uomo ed è diventato il consigliere di tutti i ragazzi in difficoltà tra le sbarre. È serio e rassicurante allo stesso tempo, ti mette a tuo agio. Parlandoci non penseresti mai che ha ucciso un uomo. La sua storia davvero fa capire come basti pochissimo a cambiare la propria vita e a farsi ritenere un mostro da chi non conosce l’uomo dietro i gesti. Roberto è un chitarrista, 37 anni, capelli un po’ scarmigliati e occhiali, un passato da truffatore professionista, un presente da operatore per un call-center in carcere e studente di giurisprudenza. Per uno preciso come lui stare nel gruppo è stato bello, ma molto faticoso: “È difficile mettere insieme persone così diverse – racconta – perché qui ogni giorno ognuno ha uno stato d’animo. C’è chi è depresso, chi è triste perché ha appena lasciato la figlia e non sa quando la rivedrà. Eppure devi suonare lo stesso. La musica per noi è stato un bel pretesto per stare insieme, per conoscerci, per stare in una comunità. Perché alla fine noi siamo qui perché non abbiamo saputo stare con gli altri”. Col suo cappellino, la fascia la polso e i tatuaggi, tra cui spicca il nome di sua figlia, Matteo è il rapper del gruppo. Non solo, perché con due bacchette in mano riesce a tirare fuori l’anima dalla batteria. La canzone, scritta e rappata da lui, che apre il concerto rivaleggia e batte tutte le denunce dei cantati tanto di moda in Italia adesso. C’è verità nelle sue parole, nel suo grido universale di conquista della propria libertà, la volontà di esprimersi. “Raccontare le nostre storie le decriminalizza – mi spiega – non tutti hanno fatto un reato per il gusto di farlo. La musica è stata una grande esperienza, perché io ho sempre fatto il dj. Ora mi piacerebbe che il laboratorio diventasse permanente, perché alcuni di noi stanno per uscire e il gruppo perderà alcuni componenti”. Presto sarà fuori anche lui, dopo una dura reclusione per narcotraffico, cominciata con l’arresto e la detenzione per due anni in Ecuador.

Un pubblico, un mondo

Mentre parliamo il piazzale si è riempito di gente e il concerto deve cominciare. Insieme a un altro fotografo scendo tra la folla di detenuti per fare una foto da lontano. Non ci è permesso fotografare il carcere, né tanto meno le persone a parte i musicisti, quindi nelle foto sono tutti di spalle. Lì in mezzo mi rendo conto di essere in mezzo a gente comune, di diversa provenienza etnica e sociale, di diversa età, sono tanti i giovani e ci sono anche quelli vecchi, molto, molto vecchi, che ti aspetti di vedere in piazza o in un parco pubblico, non qui. Ci sono africani che ballano, e ci sono anche i transessuali. Vedo facce di persone normali, vestite con abiti di tutti i giorni. In Italia non si usa la divisa e io l’ho sempre trovato un segno di civiltà, anche se per chi non ha niente può essere un problema, ma per questo ci sono le tante associazioni di volontariato. Più tardi incontro anche una volontaria della Comunità di Sant’Egidio per mi racconta di lavorare a Rebibbia da dieci anni. Mi lascio trasportare dalle canzoni, recitate, ancora più che interpretate da Francesco, il cantante del gruppo e dalle sonorità degli altri componenti: solo con il nuovo chitarrista e con Nassik, il percussionista, non ho ancora parlato. Li fotografo mentre spaziano da Vasco Rossi ai Beatles, dai Pink Floyd a Lucio Battisti, e gli arrangiamenti sono quelli che gli hanno insegnati i maestri di Mtv, ma riescono a stupire chi li aveva già ascoltati con nuove sonorità e pezzi inediti. Davanti al palco, tra i detenuti, infatti, ci sono alcune ragazze che hanno partecipato alla produzione e al montaggio di Rock in Rebibbia. Conoscono bene i ragazzi, sono amici e confidenti ormai, e raccontano anche a me com’è stata l’esperienza. “Pesante, intesa, molo bella, ma indescrivibile – dice Lorena che lavora per la Wilder – è stata difficile sia dal punto di vista umano che lavorativo, ha richiesto tanto impegno”. Poi una canzone risuona emblematica: Lucio Battisti con “Il mio canto libero”. Cantata qui, a pochi giorni dall’anniversario della morte del cantautore, assume un significato tutto particolare. Poi, dopo un arrangiamento da brividi di “Another brick in the wall” finisce la prima parte del concerto. I ragazzi di Rock in Rebibbia lasciano il palco ai Four Vegas, gruppo rock anni trenta, che, spaziando dal twist al blues, fanno ballare un po’ tutti. Io ho l’occasione di conoscere qualche altro componente del gruppo. A partire da Francesco, il front-man della band, che veramente si è buttato anima e cuore nel gruppo, nonostante la terribile perdita del fratello qualche giorno dopo l’inizio delle prime prove, un duro colpo, che insieme agli otto anni per concorso in omicidio a causa del coinvolgimento in una rissa in cui è morta una persona, per lui “è la batosta più dura della mia vita e ne ho avute tante. Ma passerà anche questa”. Francesco si è sempre proclamato innocente, si dice rassegnato, ma sul palco tira fuori l’energia per cantare. “Qui si soffre in silenzio” mi dice e poi vuole vedere le foto che ho scattato. Allora arriva anche Nassik, nordafricano, che con i suoi 21 anni è il più giovane del gruppo ed è anche il più taciturno. Arrivato in Italia a sedici anni alla fine è rimasto coinvolto nel giro dello spaccio e in una rapina e il carcere l’ha inghiottito sottraendolo ai suoi familiari che non sanno che è qui. Gli scatto una foto insieme, l’unica posata della serata.

Un gruppo di amici

Poi ci godiamo il concerto e continuiamo a chiacchierare sia con loro che con gli altri del gruppo. In quel momento non c’era differenza tra noi e un gruppo di amici a uno spettacolo. La mia naturale tendenza a stringere subito legami me li ha mostrati subito per quello che erano, persone normali, come si definisce subito Francesco, “anche se molta gente non lo sa o non vuole vederlo”. Non ho pensato a quello che avevano fatto, a dov’erano in quel momento. Solo dopo ho riletto le loro storie per associarle ai visi, alle parole. Ed era molto difficile, perché dove gli altri vedono sentenze di condanna io ho visto persone. Non posso guardare i loro cuori, non posso sapere le loro vere intenzioni, ma lì ho pensato che davvero tutti meritano una seconda possibilità. Mi sono reso conto di che cosa assurda sia il carcere, il pensiero di uomini che tengono imprigionati altri uomini che hanno fatto del male ad altre persone. È terribile nella sua crudezza, nella sua ideazione. Necessario per la società, anche se si vorrebbe che così non fosse. Spesso ci dimentichiamo del patto che ci unisce tutti per creare uno Stato con le sue leggi, dimenticandoci le basi, da dove siamo partiti, e cosa rischiamo se infrangiamo le regole. Del carcere ci si vuole dimenticare, invece dovrebbe essere parte integrante della vita, proprio per trovare un modo di superarlo. Questo concerto sta a dimostrare che un errore non può pregiudicare una vita. Ne è convinto anche il direttore del penitenziario di Rebibbia, Carmelo Cantone, che sulla rieducazione ha basato la vita del carcere. “I ragazzi hanno suonato benissimo – mi dice poco dopo la fine del concerto – ormai Rock in Rebibbia è un marchio di fabbrica. Questa esperienza è importante per dare un senso alla vita in carcere e continuerà insieme ai tanti laboratori che sono già avviati: il teatro e i corsi manuali, quello multimediale e altri. Il programma di Mtv – spiega – è stato molto positivo anche per la società, perché ha mostrato uno spaccato del carcere che ha fatto riflettere molti. Non è facile gestire una comunità così grande, persone così diverse”. Gli dico di essere rimasto colpito da quello che ho visto in cortile: “Sì, ci sono vecchi, ma anche tanti, tanti giovani, questo dispiace, sì, ma è da loro che dobbiamo partire per ricostruire la società”. Il concerto finisce quasi all’improvviso e il senso di vuoto è spiazzante. Il cortile si svuota e i detenuti tornano in cella, la vita del carcere deve riprendere, come sempre. Saluto i ragazzi della band che mi hanno fatto vivere un pomeriggio speciale. Spero di rivederli, di sentire come continuano le loro storie. Per ultimo parlo con Al Bianco, cantante dei Four Vegas che per descrivere l’esperienza non può che usare l’aggettivo preferito del gruppo: entusiasmante. “Cantare davanti a un pubblico così non solo è stato emozionante, ma anche costruttivo. Spero davvero di poterlo rifare”. E i ragazzi di R‘N’R? “Loro sono fantastici! Non potevo credere che quel rap all’inizio l’avessero scritto loro, è davvero incredibile, sono bravi”.

Uscire fuori

Una guardia penitenziaria mi riaccompagna per il lungo corridoio verso l’esterno. La mente e il cuore sono pesanti, i pensieri si aggrovigliano, i sentimenti sono contraddittori. Il prima e il dopo è diverso. Raccontarlo non basta, bisogna viverlo. Cammino nella strada che costeggia le mura. Sento delle voci provenire dal campo di calcio, o forse me le sono immaginate, chissà. Ora ho visto cosa c’è oltre quella barriera. Quel tratto di strada mi sembra enorme, infinito. Mi chiedo come debba essere percorrerlo dopo aver aspettato tanto tempo. Mi sembra un’eternità. Sono fuori e tutto mi pare illuminato da una luce nuova: la gente mi sembra strana, per un momento credo davvero che tutti possano commettere un reato da un momento all’altro. Non vedo differenze. Me ne sto andando a casa tranquillo lasciando tutto quel mondo alle spalle, e domani avrò altre cose da fare e questo pomeriggio sarà un ricordo. Non riesco a essere indifferente, ma dall’altra parte non voglio farmi coinvolgere troppo. Nella testa il rock si mischia con le emozioni. Non mi resta altro che fare come mi hanno chiesto, spedirgli le foto e, ovviamente, raccontare la loro storia.
Foto: (Il gruppo di Rock in Rebibbia; Matteo; Francesco; Rocco; Nassik; I Four Vegas; Francesco e Nassik; il direttore Carmelo Cantone)