Da più di un decennio abbiamo smesso di posarli sul piatto e ascoltarli, eppure godono ancora di ottima salute.Sono gli LP o 33 giri, icona vintage e simbolo della club culture. Ora idischi in vinile diventano i protagonisti di Vinyl Factory, la mostracollettiva legata a un bando internazionale che la MondoPOP International Gallery di Roma ha lanciato sul web due mesi fa, aperto a tutti gli urban artist del mondo.Sono arrivati più di 500 vinili dipinti da artisti famosi, famosissimi e anche meno noti e la grande esposizione di queste opere avrà due “lati”, proprio come il disco in vinile a cui è dedicata.Il LATO A di Vinyl Factory aprirà i battenti il prossimo 21 marzo ingalleria, alla MondoPOP International Gallery a Roma e prevede in mostra più di 500 vinili.Il LATO B sarà al Rising Love, sede della club culture della capitale, dove si inaugura domenica 22 marzo dalle ore 19 fino a tarda notte, con un party esclusivo, ricco di performance, musica live e, ovviamente, di 3 DJ eccezionali ai piatti.Con l’ingresso anche il catalogo della mostra.Accanto ai vinili realizzati da importanti artisti internazionali e italiani tra cui Jeremyville, Jon Burgerman, Jim Avignon, Christian Lindemann, Ciou, Andras Bartos, Diavù, Ozmo, Dem, Sten & Lex, AlePOP, Massimo Giacon, Scarful, Serpeinseno, Cesko, Zelda Bomba e tantissimi altri, vedremo esposte le opere di tutta la nuova scena della Urban Art internazionaleGli uni e gli altri uniti da un unico filo conduttore: esaltare la propriacreatività e annullare gli apparenti limiti di un disco di nero vinile di appena 12 pollici.In più i DJ più importanti della scena romana, stavolta alle prese conpennarelli, pennelli e bombolette ci regaleranno per la serata del 22 marzo al Rising Love i loro vinili, interpretati graficamente da loro stessi.L’esposizione continuerà in entrambe le sedi di VINYL FACTORY, fino a venerdì 24 aprile 2009 a MondoPOP e fino a domenica 19 aprile al Rising Love.Tutte le informazioni su Vinyl Factory nel sito http://www.mondopop.it/o via email a info@mondopop.it
giovedì 19 marzo 2009
martedì 27 gennaio 2009
FOTOX1000: Un invito per mille fotografi a esporre a Roma!
COMUNICATO AI FOTOGRAFI: PARTICIPAZIONE ALLA MOSTRA:
Che cos’è FotoX1000?
“FOTOx1000” è una mostra, curata da Francesco Amorosino, che sarà realizzata a Roma per l’VIII edizione di FotoGrafia. Festival Internazionale di Roma.
Mille fotografi da tutto il mondo sono chiamati a partecipare con uno scatto sul tema del festival: “Le declinazioni della gioia”. A ospitare l’esibizione sarà Sala 1, storica galleria non-profit di Roma, in passato con mostre fotografiche personali di Joel Meyerowitz, Elliot Erwitt, Guy Tillim, Alf Kumalo, Paolo Pellegrin, World Press Foto, Mario Carbone, Cristiano Berti e progetti con Gianni Berengo Gardin, Hai Bo, Hannah Villager e tanti altri. Sala 1 (http://www.salauno.com/) è da sempre interessata all’arte giovane e aperta ai grandi numeri, come ha già dimostrato nel 1991 con “ArteX1000”, un’esposizione di ben mille pittori. Quasi 20 anni dopo, Sala 1 torna a giocare con lo stesso numero, per una mostra che ospiterà 1000 fotografi e le loro interpretazioni della gioia. Una mostra ambiziosa, che vuole essere un momento di incontro e di scambio per giovani e meno giovani, e un grande spunto di riflessione per chi la guarda. La mostra, che aprirà il 16 aprile 2009, è inserita nella programmazione ufficiale del Festival.
Come partecipare:
Il termine ultimo per inviare le foto è il 15 marzo 2009. Gli scatti dovranno essere in formato cartolina, 15 x 10 centimetri. La libertà di realizzazione è massima, è ammesso il bianco e nero e il colore, l’analogico, il digitale e anche l’uso di qualsiasi programma grafico.
Le foto vanno inviate a “Francesco Amorosino, Via Vallarsa, 35, 00141 Rome, Italy” e via e-mail a photoX1000@gmail.com insieme alla scheda d’autore in cui indicare il nome o nickname, Stato di residenza, indirizzo e-mail o indirizzo postale, e, se lo si desidera, un breve curriculum fotografico e una spiegazione della foto, informazioni da riportare anche sul retro della foto. All’inaugurazione della mostra saranno esposte le prime mille foto arrivate in base alle modalità precedentemente descritte. Se le foto pervenute dovessero superare il numero 1000 tutte le foto dalla 1001esima in poi saranno esposte nei giorni seguenti. Durante l’esposizione il pubblico, se lo desidera, potrà portare via una delle foto esposte. In questo modo, staccando la foto dalla parete, sarà possibile scoprire l’identità del fotografo e, per così dire, “adottarlo”.
Sul portale di photo sharing Flickr c’è una pagina dedicata alla mostra dove chi è registrato al sito può postare la sua foto: www.flickr.com/groups/photox1000. Ci si può registrate anche al gruppo su Facebook.
Domande?
Non esitate a contattarci per qualsiasi chiarimento. Crediamo molto in questo progetto senza confine e soprattutto aperto a tutti e a tutte.
Francesco Amorosino
photoX1000@gmail.com
www.flickr.com/photos/rilunesil
Mary Angela Schroth o Eloisa Saldari - Responsabili Sala 1
salauno@salauno.com
COMUNICATION TO ALL PHOTOGRAPHERS. INVITE TO PARTICIPATE AT THE EXHIBIT :
What is “Fotox1000”?
“FOTOx1000” is an open exhibit, conceived by Francesco Amorosino, to open in Rome as part of the 8th annual festival Fotografia. Festival Internazionale di Roma.
A thousand photographers from all over the world are invited to participate, with a work based on the theme of the Festival: The Declination of Joy. The exhibit will be hosted by Sala 1, Italy’s oldest non-profit space for contemporary art, with previous solo exhibitions by Joel Meyerowitz, Elliot Erwitt, Guy Tillim, Alf Kumalo, Paolo Pellegrin, World Press Foto, Mario Carbone, Cristiano Berti and projects by Gianni Berengo Gardin, Hai Bo, Hannah Villager among others. Sala 1 (http://www.salauno.com/) has always supported young artists and open to large numbers, as evidenced by the 1991 exhibit “Artex1000” which opened the gallery to a thousand artists, each with a single work. Twenty years later, Sala 1 returns with a play on the same number, for a project that will host 1000 photographers and their interpretation of the theme of “Joy”. An ambitious project that demonstrates a moment of encounter and reflection for the viewer. It opens on April 16, 2009 and is part of the Festival’s official program and catalogue.
How to participate:
The photo must be sent by 15 March 2009: in postcard form, 15 x 10 centimeters. Maximum freedom in the realization: black and white, color, traditional or digital, use of any graphics program
The photograph should be to “Francesco Amorosino, Via Vallarsa, 35, 00141 Rome, Italy” and via e-mail to photoX1000@gmail.com together with a label indicating the name, date, e-mail or postal address, which should also be pasted on the back of the photo. The first 1000 works to arrive will be shown in the exhibit. Subsequent entries will be shown if possible; during the exhibition the public will be invited to take away one of the photos from the walls, thus discovering the identity of the photographer and “adopting” the artist.
A page dedicated to the project will be registered on the photo sharing portal FLICKR where one can also post the entry.
Other questions?
Don’t hesitate to contact Francesco if you have any questions; we really believe in this unusual and “unlimited” project open to everyone.
Francesco Amorosino
photoX1000@gmail.com
www.flickr.com/photos/rilunesil
Mary Angela Schroth or Eloisa Saldari Sala 1
salauno@salauno.com
Che cos’è FotoX1000?
“FOTOx1000” è una mostra, curata da Francesco Amorosino, che sarà realizzata a Roma per l’VIII edizione di FotoGrafia. Festival Internazionale di Roma.
Mille fotografi da tutto il mondo sono chiamati a partecipare con uno scatto sul tema del festival: “Le declinazioni della gioia”. A ospitare l’esibizione sarà Sala 1, storica galleria non-profit di Roma, in passato con mostre fotografiche personali di Joel Meyerowitz, Elliot Erwitt, Guy Tillim, Alf Kumalo, Paolo Pellegrin, World Press Foto, Mario Carbone, Cristiano Berti e progetti con Gianni Berengo Gardin, Hai Bo, Hannah Villager e tanti altri. Sala 1 (http://www.salauno.com/) è da sempre interessata all’arte giovane e aperta ai grandi numeri, come ha già dimostrato nel 1991 con “ArteX1000”, un’esposizione di ben mille pittori. Quasi 20 anni dopo, Sala 1 torna a giocare con lo stesso numero, per una mostra che ospiterà 1000 fotografi e le loro interpretazioni della gioia. Una mostra ambiziosa, che vuole essere un momento di incontro e di scambio per giovani e meno giovani, e un grande spunto di riflessione per chi la guarda. La mostra, che aprirà il 16 aprile 2009, è inserita nella programmazione ufficiale del Festival.
Come partecipare:
Il termine ultimo per inviare le foto è il 15 marzo 2009. Gli scatti dovranno essere in formato cartolina, 15 x 10 centimetri. La libertà di realizzazione è massima, è ammesso il bianco e nero e il colore, l’analogico, il digitale e anche l’uso di qualsiasi programma grafico.
Le foto vanno inviate a “Francesco Amorosino, Via Vallarsa, 35, 00141 Rome, Italy” e via e-mail a photoX1000@gmail.com insieme alla scheda d’autore in cui indicare il nome o nickname, Stato di residenza, indirizzo e-mail o indirizzo postale, e, se lo si desidera, un breve curriculum fotografico e una spiegazione della foto, informazioni da riportare anche sul retro della foto. All’inaugurazione della mostra saranno esposte le prime mille foto arrivate in base alle modalità precedentemente descritte. Se le foto pervenute dovessero superare il numero 1000 tutte le foto dalla 1001esima in poi saranno esposte nei giorni seguenti. Durante l’esposizione il pubblico, se lo desidera, potrà portare via una delle foto esposte. In questo modo, staccando la foto dalla parete, sarà possibile scoprire l’identità del fotografo e, per così dire, “adottarlo”.
Sul portale di photo sharing Flickr c’è una pagina dedicata alla mostra dove chi è registrato al sito può postare la sua foto: www.flickr.com/groups/photox1000. Ci si può registrate anche al gruppo su Facebook.
Domande?
Non esitate a contattarci per qualsiasi chiarimento. Crediamo molto in questo progetto senza confine e soprattutto aperto a tutti e a tutte.
Francesco Amorosino
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COMUNICATION TO ALL PHOTOGRAPHERS. INVITE TO PARTICIPATE AT THE EXHIBIT :
What is “Fotox1000”?
“FOTOx1000” is an open exhibit, conceived by Francesco Amorosino, to open in Rome as part of the 8th annual festival Fotografia. Festival Internazionale di Roma.
A thousand photographers from all over the world are invited to participate, with a work based on the theme of the Festival: The Declination of Joy. The exhibit will be hosted by Sala 1, Italy’s oldest non-profit space for contemporary art, with previous solo exhibitions by Joel Meyerowitz, Elliot Erwitt, Guy Tillim, Alf Kumalo, Paolo Pellegrin, World Press Foto, Mario Carbone, Cristiano Berti and projects by Gianni Berengo Gardin, Hai Bo, Hannah Villager among others. Sala 1 (http://www.salauno.com/) has always supported young artists and open to large numbers, as evidenced by the 1991 exhibit “Artex1000” which opened the gallery to a thousand artists, each with a single work. Twenty years later, Sala 1 returns with a play on the same number, for a project that will host 1000 photographers and their interpretation of the theme of “Joy”. An ambitious project that demonstrates a moment of encounter and reflection for the viewer. It opens on April 16, 2009 and is part of the Festival’s official program and catalogue.
How to participate:
The photo must be sent by 15 March 2009: in postcard form, 15 x 10 centimeters. Maximum freedom in the realization: black and white, color, traditional or digital, use of any graphics program
The photograph should be to “Francesco Amorosino, Via Vallarsa, 35, 00141 Rome, Italy” and via e-mail to photoX1000@gmail.com together with a label indicating the name, date, e-mail or postal address, which should also be pasted on the back of the photo. The first 1000 works to arrive will be shown in the exhibit. Subsequent entries will be shown if possible; during the exhibition the public will be invited to take away one of the photos from the walls, thus discovering the identity of the photographer and “adopting” the artist.
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mercoledì 26 novembre 2008
L’ENERGIA DI HIGH SCHOOL MUSICAL DA DICEMBRE AL BRANCACCIO
Una platea che canta più forte degli attori, protagonisti presi d’assalto da folle di bambini e di mamme che chiedono autografi, un successo planetario. High School Musical ormai è davvero il fenomeno musicale e cinematografico degli ultimi anni e non solo, perché le avventure di questi liceali sportivi, belli e dotati di voci coinvolgenti, hanno investono anche il mondo del teatro. Al teatro Brancaccio di Roma, per la prima volta nella Capitale, dal 3 dicembre e per tutto il periodo natalizio, va in scena lo spettacolo ispirato al primo film della serie, una produzione affidata al re del musical all’italiana: Saverio Marconi. Il regista e direttore della Compagnia della Rancia ha creato un’opera unica, simile, ma allo stesso tempo diversissima dalla sua omologa americana. “In tutto il mondo è stata portata la versione inglese del musical – racconta Marconi – mentre in Italia la Disney ne ha chiesto una fatta apposta, perché si ha a cuore la creatività tipica del nostro popolo. Noi l’abbiamo rifatto a nostro gusto, modificando canzoni, costumi e a volte abbiamo anche fatto cambiamenti al testo. La Disney ha supervisionato il lavoro e l’ha approvato”. High School Musical - Lo spettacolo è tutto in italiano e cantato dal vivo da 22 giovani interpreti con all’attivo percorsi artistici che non hanno nulla da invidiare agli attori adulti. La star indiscussa è Jacopo Sarno, l’interprete di Troy, il popolare capitano della squadra di backet del liceo che nei film ha il volto dell’idolo delle teenager Zack Efron. L’artista diciannovenne ha esordito da giovanissimo nel mondo della musica e della recitazione: dal 1995 al 1997 è il piccolo Paolino nella sit-com “Io e la mamma” con Gerry Scotti e Delia Scala, poi dal 1999 è diventato doppiatore, interpretando, tra le tante cose, il passerotto di Alex del Piero nel celebre spot per l’acqua minerale. Nel 2003 partecipa al festival di Castrocaro come cantautore, dal 2006 è conduttore per Nickelodeon e Mtv, mentre nel 2007 arriva il ruolo di “Jaki” nella sit-com “Quelli dell’intervallo” su Disney Channel. Oltre a ballare, cantare, comporre e suonare, studia Filosofia all’università Statale di Milano, e per lo spettacolo ha anche dovuto imparare a giocare a basket. “La vera difficoltà è stata ballare e far rimbalzare i palloni in sincrono – racconta – una volta ho fatto canestro con un rimbalzo venuto male senza accorgermene”. La cosa più bella, però, “è il gruppo di noi ragazzi, siamo molto amici e ognuno ha una sua professionalità, quindi cerchiamo di rubare ognuno le qualità migliori dell’altro”. Anche Denise Faro, l’interprete di Gabriella, la ragazza di Troy, dice di amare questo ruolo e l’energia dello spettacolo: “Ogni sera ci aiutiamo a vicenda e ricreiamo un affiatamento tra di noi, rendendo più vera la recitazione”. Denise Faro ha esordito nel 2003 in televisione con “Un medico in famiglia” e nel 2008 al cinema con “Come tu mi vuoi” con Nikolas Vaporidis e Cristina Capotondi. Interpreta la protagonista femminile, inoltre, in “Giulietta e Romeo” di Riccardo Cocciante e Pasquale Panella. Dopo le date romane lo spettacolo toccherà oltre 30 città italiane, a cominciare da Milano, all’Allianz Teatro dal 14 gennaio al primo febbraio.
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martedì 25 novembre 2008
Malie d'amore e antichi canti lucani: la magia di "Vito ballava con le streghe"
“Una storia che si riferisce alla memoria, ma è intrisa di simboli che parlano al tempo presente e guardano al futuro, perciò è anche un presagio”. Così lo scrittore lucano Mimmo Sammartino definisce “Vito ballava con le streghe”, il docufilm presentato oggi a Roma alla sede Rai di viale Mazzini, ispirato al suo libro omonimo. Un film “strano, insolito” secondo le parole dello stesso regista Vittorio Nevano, che ondeggia tra tradizione, poesie in dialetto, frasi antiche e panorami di roccia e montagne che oggi, come ieri, incantano i viaggiatori in Basilicata. La pellicola è stata girata tra Castelmezzano, Pietrapertosa e Campomaggiore, nel cuore delle dolomiti lucane, montagne uniche per la complessità delle loro cime frastagliate, alla cui ombra si svolge la storia di Vito, un semplice contadino che cade sotto l’influsso delle masciare. Queste streghe pagane, che volano di notte su cani bianchi, gli cambiano la vita, facendolo sposo di una di loro, una donna che può essere “anche una santa”, che sembra già conoscere il loro destino. “Quello di Sammartino è un libro difficile da tradurre in immagini – racconta Nevano – parla di un mito, rende immortale un posto e una regione dalla cultura elevata. Credo che anche il cast sia riuscito a rendere questa grandezza”. Interpretato da giovani attori della Basilicata, ma anche da vere guest star, come Ulderico Pesce o il poeta della beat generation, con origini lucane, John Giorno, il film andrà in onda su Rai Tre il 26 novembre all’una e dieci e sarà distribuito anche all’estero. “È un lavoro importante – ha sottolineato il regista – perché ha messo insieme la Rai e le amministrazioni della regione e dei Comuni”. Alla presentazione, infatti, era presente anche il governatore della Basilicata, Vito De Filippo: “Stiamo inventando molte strade per promuovere una piccola regione del Sud fatta di suggestioni importanti” ha detto il presidente, ricordando che Castelmezzano, il paese di 900 abitanti dove è cresciuto Sammartino, è a rischio spopolamento, ma “così torna a vivere”. De Filippo ha sottolineato anche il gran numero di scrittori che stanno emergendo nella regione e ha concluso dicendo che “sicuramente il docufilm aiuterà la Basilicata”. Molto emozionato anche il sindaco di Castelmezzano, Nicola Valluzzi: “Per la comunità sono stati giorni di coinvolgimento assoluto” ha raccontato, riferendosi alle riprese del film, e ricordando che la storia “è stata nascosta per anni: della malia dell’amore, del paganesimo non si parlava, ma noi l’abbiamo portata alla luce e abbiamo dimostrato di poter diventare protagonisti della televisione a nostro modo, con la cultura e la tradizione”. Una storia fatta di balli e canzoni, sospesa nel tempo, che nasce da “una rivendicazione di dignità di una cultura e una dichiarazione d’amore per un mondo” fatta da Sammartino sulla scia “della fascinazione per i racconti di mia nonna”. Un insieme di simboli che ha colpito anche il senatore a vita Emilio Colombo, “il più vecchio politico lucano” come si è definito, ricordando la sua rabbia giovanile per come veniva descritta la sua terra e la consapevolezza, scendendo tra la gente, che “sotto le vesti, i panni spesso neri, vi erano delle menti vivide che portavano con sé la grande ricchezza di questa terra, dove magia e filosofia si incontrano. Questo film sutura il passato e il presente”.
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giovedì 16 ottobre 2008
Tra passione e indignazione: Dario Fo e Franca Rame in mostra a Roma
Il Papa con l’ombrello, la sposa a testa in giù, i burattini del teatro, gli arlecchini e le dame: un grande girotondo colorato e lì, al centro del palcoscenico ci sono loro, Dario Fo e Franca Rame, re e regina di quel mondo fatato, non distanti, ma immersi nelle pitture tanto da diventarne parte integrante. La mostra “Pupazzi con rabbia e sentimento”, dopo un lungo tour europeo, sbarca a Roma, alla Casa dei Teatri a Villa Doria Pamphilj, per raccontare 54 anni di matrimonio, ma, soprattutto, una vita al servizio dell’arte e del teatro. “Un’esibizione che nasce dall’amore” la definisce Franca Rame, mentre lei e il marito Dario girano per le sale e si soffermano su quadri e costumi di scena con gli occhi di chi li vede per la prima volta, ma con la mente carica di ricordi. Ecco allora il vestito indossato dalla signora Rame nei panni di Isabella, gli autoritratti, “guardate com’ero a vent’anni” dice Fo e anche le raffigurazioni della sua amata fatte dal giovane Dario, “che dediche che mi scriveva! Fatevele scrivere dai vostri morosi!” invita Franca emozionata. Una mostra che ripercorre tutte le tappe del Fo pittore, scenografo, attore, regista, costumista, scrittore e premio Nobel per la letteratura nel 1997. “L’esibizione è ridotta rispetto a quella originale per ragioni di spazio – racconta la curatrice Marina De Juli – quindi abbiamo condensato tutto il percorso concentrandoci sulle opere liriche divise in vari settori. C’è quello dedicato a Franca, quello sulla commedia dell’arte, sui classici e sui tempi moderni”.
Sentimento e rabbia
La signora Rame parla della sua vita con un uomo che “mangia e disegna, vede la tv e disegna, dorme…e si riposa” e subito ci tiene a dire che “Dario non è cosciente di quello che è e di ciò che fa, è molto umile. Sono 54 anni che siamo sposati e io non gli ho mai buttato benzina addosso insieme a un fiammifero! Ho sempre sopportato la sua indifferenza per il lavoro che fa. Eppure – aggiunge – sono oltre quattrocento le compagnie nel mondo che recitano i testi di Dario, un impegno testimoniato dai due milioni di documenti che abbiamo raccolto finora”. Poi tocca a Fo aprire il suo sipario personale e spiegare le sue visioni. Il polivalente artista, però, non si sofferma sul passato, ma parla del presente, perché “il teatro deve essere diretto al tempo in cui si vive, se no muore”. Qui sta anche la spiegazione del titolo della mostra, dove il sentimento è la passione per ciò che si ama e la rabbia “nasce da una presa di coscienza, dall’indignazione. Il più grande disastro del nostro tempo – spiega Fo – è la disinformazione, non come incidente, ma come progetto. La tv taglia i programmi educativi e sposta ciò che è cultura a notte fonda, lasciando le prime serate per spettacoli indegni, contro il senso civile, ottusa dimostrazione di imbecillità corporea, neanche sessuale, che, invece è più rispettabile. Ormai – continua il premio Nobel – la tv è in appalto ai politivi che impongono i propri temi con la chiave dell’ascolto, in modo che più fai programmi vuoti meno problemi crei. Così però fai un servizio pessimo a tutta la nazione e soprattutto ai giovani”.
Tragedie moderne
Fo rivolge poi l’attenzione a un’altra “tragedia”, la crisi finanziaria: “oggi gli esperti parlano di errori, ma perché non dicono la verità? Qui c’è una truffa organizzata da dieci anni e tutti lo sapevano, è stata una rapina a mano armata contro 35 milioni di americani. E ora si scoprono azioni vuote, di carta, anche da noi”. E proprio perché il teatro deve parlare del presente Fo rivela che nel nuovo spettacolo che ha debuttato ieri sera al Teatro Valle di Roma, “Sotto paga! Non si paga!”, si parla proprio “di questo dramma”. Fo elogia anche gli attori, che “non recitano soltanto, credono in quello che raccontano, nella necessità di indignarsi. Bisogna recuperare questo rapporto tra pubblico e palcoscenico, perché lo spettatore deve uscire bestemmiando e riflettendo. Questo fa crescere il teatro”. È proprio ai giovani che va l’ultimo pensiero dei coniugi Fo a quei ragazzi “che hanno coraggio e che soffrono” nelle scuole e nelle compagnie: “Ai miei tempi – dice Dario Fo – c’erano tanti giovani che recitavano e la Dc, pungolata dalla sinistra, aveva l’intelligenza di sostenere le scuole e i teatri. Oggi gli dicono di andare in tv a fare le marchette. L’Italia è la nazione in Europa dove si investe meno in cultura. E adesso tagliano anche la scuola”. In conclusione un ultimo ricordo del passato, con Fo che parla dell’emozione più grande, quando venne chiamato a Parigi a dirigere Molière, “un privilegio mai concesso a uno straniero”, e fu molto apprezzato, tanto che, racconta Franca Rame, “il presidente Mitterand ci scrisse una lettera di elogio”. Fo sorride e chiosa ironico: “Proprio come fanno ora qui tutti i politici”.
martedì 23 settembre 2008
Intervista: "Under the radar", il nuovo album-diario di Daniel Powter / Interview: "Under the radar", the new album-diary of Daniel Powter
Roma, 21 set – Autenticità, verità. Come in un diario, come in una confessione. È questo il sentimento che pervade “Under the radar” il nuovo disco di Daniel Powter, in uscita in questi giorni in Europa e negli Stati Uniti a inizio 2009. Il cantante canadese torna sulla scena musicale dopo una lunga assenza che in molti, però, non hanno avvertito, con quella “Bad Day”, successo interplanetario del 2005, ancora in testa. Powter, però, dice di non voler rimanere legato a quella canzone “che ormai non sento più mia, non ne ho più la proprietà”, per questo ha “messo in gioco tutto” e si è preso il tempo giusto per tornare. E lo fa in grande stile, con un album pieno di canzoni solari che affrontano, però, temi importanti ripercorrendo la vita di Powter. “L’album si apre con la mia canzone preferita – racconta Powter, riferendosi a “Best of me” (il meglio di me) – la prima a cui ho lavorato, in cui dico subito di non essere perfetto, di aver fatto tanti sbagli, ma di essere riuscito a tirarmi fuori anche dal periodo in cui ero dipendente dalla droga”. Schiavo della cocaina per otto anni, Powter è riuscito a liberarsi e a tornare pulito. Proprio questa, dice, è la sua migliore qualità, il suo “best of me” è proprio “il coraggio di non arrendersi, di continuare, di chiedere scusa e di essere umano, ammettendo di essere imperfetto”. Nel disco oltre al pianoforte, strumento che Powter suona fin da bambino, ci sono tante chitarre e anche musica elettronica, cosa che ha stupito il cantautore, ma non Linda Perry, chitarrista, autrice di canzoni, produttrice e artefice dei cambiamenti artistici di Gwen Stefani e Christina Aguilera a cui anche Powter deve molto. “Lei è una donna forte ed energica, mi ha chiesto tantissimo, mi ha svuotato, abbiamo lavorato anche 12 ore al giorno, abbiamo pianto e abbiamo riso insieme. Soprattutto mi ha chiesto di essere vero, di essere me stesso”. Compito in cui Powter è riuscito benissimo, con canzoni come “Am I still the one?”, in cui la lotta contro la droga diventa la ricerca della speranza, in un duetto con la stessa Perry. “È un album in cui ho rischiato molto, non volevo fare delle normali canzoni pop, volevo entrare in contatto con le persone, per questo è stato necessario aprirsi e aspettare tanto dal successo di Bad Day”. Tra le canzoni Powter ama citare “Whole world around”, in cui la musica diventa un sentimento di unità tra i popoli che nonostante le differenze hanno in comune la ricerca dell’amore e di un’eredità da lasciare al mondo C’è poi il tema del viaggio: “Not coming back”, in cui la paura è quella di non tornare indietro. “L’ho scritta pensando di guidare la mia auto, tutto il disco in realtà è bello da ascoltare guidando, è una compagnia che pretende di essere ascoltata con attenzione”. Il viaggio, ma qui si tratta di un ritorno, è protagonista anche di “Next plane home” (il prossimo aereo per casa), in cui Powter vuole tornare a casa dove ha lasciato una persona importante. E adesso che è in Italia vuole tornare a casa? “No, stai scherzando? – risponde ridendo – Non lascerei mai questo posto, amo l’Italia, qui la gente vive meglio, è una vera gioia essere qui, ho tanti bei ricordi di viaggi precedenti e non vedo l’ora di tornare in primavera per riempire l’Italia di musica con i miei concerti”.
lunedì 15 settembre 2008
Dentro, la musica - Reportage da Rock in Rebibbia
Un “canto libero” si alza dalle mura e dalle sbarre, dalle recinzioni e dalle torrette. Dopo ogni cosa è diversa. Per tutti, anche per me che a Rebibbia ci sono stato solo un pomeriggio. Eppure…Non riesco a smettere di pensarci, il cuore non cessa di battere. Tutto così strano. Tutto così normale.
Arrivare dentro
Ho camminato fino alla pesante struttura del carcere, l’immensa costruzione inglobata dalla città, nascosta, ma allo stesso tempo visibile a tutti. L’ingresso è imponente, il viale d’accesso, via Raffaele Majetti, fa impressione per la sua larghezza e l’assenza di automobili, se non quelle della polizia penitenziaria e della volante dei carabinieri che arriva a sirene spiegate. Cammino vicino al muro di cinta non più alto di quello di una villa, vedo spuntare una rete da calcio. Seguo la recinzione fino all’ingresso del Nuovo Complesso. Da qui non si vedono celle o sbarre evidenti, sembra quasi di trovarsi davanti a un luogo come un altro. Controllano il mio nome, prendono il documento e dopo una rapida perquisizione sono dentro. Percorro un piccolo spiazzale da solo, poi, davanti a una grande porta blindata, che intuisco essere la vera entrata, mi aspettano alcune guardie pronte a portarmi nel luogo prestabilito. Sembrano quasi divertite davanti ai miei sguardi che si posano sulle porte di ferro, sui cancelli con le sbarre, sui monitor della sicurezza. Una di loro mi accompagna lungo un corridoio con pieno di trompe l’oeil sulle pareti per simulare rovine romane e di teche piene di reperti trovati durante la realizzazione della prigione. “Come le sembra?” mi chiede il secondino. “Qui quasi bello – rispondo – diverso da come s’immagina”. Sorride: “È quello che fanno vedere alle autorità, il resto non è così…non è male, ma…un po’ differente”. Annuiscono: “Tornerò a vedere il resto, allora” rispondo. Poco dopo sono fuori, in un grande, immenso cortile che per la cura architettonica sembra quasi la piazza di una tranquilla cittadina di provincia, con scale, panchine, vasi pieni di fiori. Davanti alla chiesa, rialzata da pochi scalini c’è una zona dove è stato allestito un palco. Nello spiazzo antistante non c’è ancora nessuno, ma i ragazzi sono già vicino agli strumenti a confabulare. È così che conosco i componenti del gruppo nato grazie al programma di Mtv, Rock in Rebibbia. Detenuti con la passione per la musica che hanno trovato il modo di evadere per qualche ora dalle loro celle. Se appena arrivato sono rimasto un po’ sulle mie è bastato poco a sciogliermi. Li avevo visti in televisione, avevo letto le loro storie, mi ero commosso. Dal vivo è stato più forte, un pugno nello stomaco. Perché la loro simpatia e il loro entusiasmo mi hanno subito coinvolto.
Musica d’evasione
I primi che conosco sono Valentino e Rocco, tastierista e bassista del gruppo, entrambi con indosso la maglietta del September Festival che organizza questo concerto, come molti altri in giro per Roma oggi per ricordare l’attentato dell’undici settembre. Subito mi raccontano la loro passione per la musica, scoperta grazie al programma che per quattro mesi ha portato grandi nomi del pop e del rock a esibirsi con loro, ma, soprattutto, gli ha dato modo di far conoscere le loro storie. “Siamo un po’ fuori forma, qualche accordo salterà di sicuro” dice Valentino, un ventiquattrenne simpatico e un po’ grassottello, coinvolgente con la sua allegria. “È da aprile che i maestri se ne sono andati e abbiamo provato poco – continua –. Ci sono sempre problemi organizzativi, è difficile ritrovarsi. Però vogliamo continuare, anzi, mi piacerebbe portare la band in tournèe. In molti ci apprezzano, ma ci sono stati cantanti che hanno detto: ‘come, noi tanti anni di gavetta e questi, il peggio della società, che si mettono a fare i musicisti su Mtv’. Per fortuna non la pensano tutti così”. Valentino è rumeno, della Transilvania, appena arrivato in Italia è diventato elettricista, poi ha perso il lavoro. Le difficoltà insormontabili l’hanno portato a provare la strada del crimine, ma è stato arrestato prima per truffa senza finire in carcere e poi è arrivata la condanna a tre anni per aver rubato un’auto. Ora ha capito che per il crimine non è proprio portato. “Siamo pronti per questo concerto per la pace” dice Rocco. Capelli brizzolati e pizzetto, un volto quasi cinematografico. Ha trentadue anni, ma sembra più grande, il carcere invecchia e lui qui ha passato dodici anni, dopo un tentativo di furto finito male, con la morte di un maresciallo. Allora era un ragazzo, adesso è un uomo ed è diventato il consigliere di tutti i ragazzi in difficoltà tra le sbarre. È serio e rassicurante allo stesso tempo, ti mette a tuo agio. Parlandoci non penseresti mai che ha ucciso un uomo. La sua storia davvero fa capire come basti pochissimo a cambiare la propria vita e a farsi ritenere un mostro da chi non conosce l’uomo dietro i gesti. Roberto è un chitarrista, 37 anni, capelli un po’ scarmigliati e occhiali, un passato da truffatore professionista, un presente da operatore per un call-center in carcere e studente di giurisprudenza. Per uno preciso come lui stare nel gruppo è stato bello, ma molto faticoso: “È difficile mettere insieme persone così diverse – racconta – perché qui ogni giorno ognuno ha uno stato d’animo. C’è chi è depresso, chi è triste perché ha appena lasciato la figlia e non sa quando la rivedrà. Eppure devi suonare lo stesso. La musica per noi è stato un bel pretesto per stare insieme, per conoscerci, per stare in una comunità. Perché alla fine noi siamo qui perché non abbiamo saputo stare con gli altri”. Col suo cappellino, la fascia la polso e i tatuaggi, tra cui spicca il nome di sua figlia, Matteo è il rapper del gruppo. Non solo, perché con due bacchette in mano riesce a tirare fuori l’anima dalla batteria. La canzone, scritta e rappata da lui, che apre il concerto rivaleggia e batte tutte le denunce dei cantati tanto di moda in Italia adesso. C’è verità nelle sue parole, nel suo grido universale di conquista della propria libertà, la volontà di esprimersi. “Raccontare le nostre storie le decriminalizza – mi spiega – non tutti hanno fatto un reato per il gusto di farlo. La musica è stata una grande esperienza, perché io ho sempre fatto il dj. Ora mi piacerebbe che il laboratorio diventasse permanente, perché alcuni di noi stanno per uscire e il gruppo perderà alcuni componenti”. Presto sarà fuori anche lui, dopo una dura reclusione per narcotraffico, cominciata con l’arresto e la detenzione per due anni in Ecuador.
Un pubblico, un mondo
Mentre parliamo il piazzale si è riempito di gente e il concerto deve cominciare. Insieme a un altro fotografo scendo tra la folla di detenuti per fare una foto da lontano. Non ci è permesso fotografare il carcere, né tanto meno le persone a parte i musicisti, quindi nelle foto sono tutti di spalle. Lì in mezzo mi rendo conto di essere in mezzo a gente comune, di diversa provenienza etnica e sociale, di diversa età, sono tanti i giovani e ci sono anche quelli vecchi, molto, molto vecchi, che ti aspetti di vedere in piazza o in un parco pubblico, non qui. Ci sono africani che ballano, e ci sono anche i transessuali. Vedo facce di persone normali, vestite con abiti di tutti i giorni. In Italia non si usa la divisa e io l’ho sempre trovato un segno di civiltà, anche se per chi non ha niente può essere un problema, ma per questo ci sono le tante associazioni di volontariato. Più tardi incontro anche una volontaria della Comunità di Sant’Egidio per mi racconta di lavorare a Rebibbia da dieci anni. Mi lascio trasportare dalle canzoni, recitate, ancora più che interpretate da Francesco, il cantante del gruppo e dalle sonorità degli altri componenti: solo con il nuovo chitarrista e con Nassik, il percussionista, non ho ancora parlato. Li fotografo mentre spaziano da Vasco Rossi ai Beatles, dai Pink Floyd a Lucio Battisti, e gli arrangiamenti sono quelli che gli hanno insegnati i maestri di Mtv, ma riescono a stupire chi li aveva già ascoltati con nuove sonorità e pezzi inediti. Davanti al palco, tra i detenuti, infatti, ci sono alcune ragazze che hanno partecipato alla produzione e al montaggio di Rock in Rebibbia. Conoscono bene i ragazzi, sono amici e confidenti ormai, e raccontano anche a me com’è stata l’esperienza. “Pesante, intesa, molo bella, ma indescrivibile – dice Lorena che lavora per la Wilder – è stata difficile sia dal punto di vista umano che lavorativo, ha richiesto tanto impegno”. Poi una canzone risuona emblematica: Lucio Battisti con “Il mio canto libero”. Cantata qui, a pochi giorni dall’anniversario della morte del cantautore, assume un significato tutto particolare. Poi, dopo un arrangiamento da brividi di “Another brick in the wall” finisce la prima parte del concerto. I ragazzi di Rock in Rebibbia lasciano il palco ai Four Vegas, gruppo rock anni trenta, che, spaziando dal twist al blues, fanno ballare un po’ tutti. Io ho l’occasione di conoscere qualche altro componente del gruppo. A partire da Francesco, il front-man della band, che veramente si è buttato anima e cuore nel gruppo, nonostante la terribile perdita del fratello qualche giorno dopo l’inizio delle prime prove, un duro colpo, che insieme agli otto anni per concorso in omicidio a causa del coinvolgimento in una rissa in cui è morta una persona, per lui “è la batosta più dura della mia vita e ne ho avute tante. Ma passerà anche questa”. Francesco si è sempre proclamato innocente, si dice rassegnato, ma sul palco tira fuori l’energia per cantare. “Qui si soffre in silenzio” mi dice e poi vuole vedere le foto che ho scattato. Allora arriva anche Nassik, nordafricano, che con i suoi 21 anni è il più giovane del gruppo ed è anche il più taciturno. Arrivato in Italia a sedici anni alla fine è rimasto coinvolto nel giro dello spaccio e in una rapina e il carcere l’ha inghiottito sottraendolo ai suoi familiari che non sanno che è qui. Gli scatto una foto insieme, l’unica posata della serata.
Un gruppo di amici
Poi ci godiamo il concerto e continuiamo a chiacchierare sia con loro che con gli altri del gruppo. In quel momento non c’era differenza tra noi e un gruppo di amici a uno spettacolo. La mia naturale tendenza a stringere subito legami me li ha mostrati subito per quello che erano, persone normali, come si definisce subito Francesco, “anche se molta gente non lo sa o non vuole vederlo”. Non ho pensato a quello che avevano fatto, a dov’erano in quel momento. Solo dopo ho riletto le loro storie per associarle ai visi, alle parole. Ed era molto difficile, perché dove gli altri vedono sentenze di condanna io ho visto persone. Non posso guardare i loro cuori, non posso sapere le loro vere intenzioni, ma lì ho pensato che davvero tutti meritano una seconda possibilità. Mi sono reso conto di che cosa assurda sia il carcere, il pensiero di uomini che tengono imprigionati altri uomini che hanno fatto del male ad altre persone. È terribile nella sua crudezza, nella sua ideazione. Necessario per la società, anche se si vorrebbe che così non fosse. Spesso ci dimentichiamo del patto che ci unisce tutti per creare uno Stato con le sue leggi, dimenticandoci le basi, da dove siamo partiti, e cosa rischiamo se infrangiamo le regole. Del carcere ci si vuole dimenticare, invece dovrebbe essere parte integrante della vita, proprio per trovare un modo di superarlo. Questo concerto sta a dimostrare che un errore non può pregiudicare una vita. Ne è convinto anche il direttore del penitenziario di Rebibbia, Carmelo Cantone, che sulla rieducazione ha basato la vita del carcere. “I ragazzi hanno suonato benissimo – mi dice poco dopo la fine del concerto – ormai Rock in Rebibbia è un marchio di fabbrica. Questa esperienza è importante per dare un senso alla vita in carcere e continuerà insieme ai tanti laboratori che sono già avviati: il teatro e i corsi manuali, quello multimediale e altri. Il programma di Mtv – spiega – è stato molto positivo anche per la società, perché ha mostrato uno spaccato del carcere che ha fatto riflettere molti. Non è facile gestire una comunità così grande, persone così diverse”. Gli dico di essere rimasto colpito da quello che ho visto in cortile: “Sì, ci sono vecchi, ma anche tanti, tanti giovani, questo dispiace, sì, ma è da loro che dobbiamo partire per ricostruire la società”. Il concerto finisce quasi all’improvviso e il senso di vuoto è spiazzante. Il cortile si svuota e i detenuti tornano in cella, la vita del carcere deve riprendere, come sempre. Saluto i ragazzi della band che mi hanno fatto vivere un pomeriggio speciale. Spero di rivederli, di sentire come continuano le loro storie. Per ultimo parlo con Al Bianco, cantante dei Four Vegas che per descrivere l’esperienza non può che usare l’aggettivo preferito del gruppo: entusiasmante. “Cantare davanti a un pubblico così non solo è stato emozionante, ma anche costruttivo. Spero davvero di poterlo rifare”. E i ragazzi di R‘N’R? “Loro sono fantastici! Non potevo credere che quel rap all’inizio l’avessero scritto loro, è davvero incredibile, sono bravi”.
Uscire fuori
Una guardia penitenziaria mi riaccompagna per il lungo corridoio verso l’esterno. La mente e il cuore sono pesanti, i pensieri si aggrovigliano, i sentimenti sono contraddittori. Il prima e il dopo è diverso. Raccontarlo non basta, bisogna viverlo. Cammino nella strada che costeggia le mura. Sento delle voci provenire dal campo di calcio, o forse me le sono immaginate, chissà. Ora ho visto cosa c’è oltre quella barriera. Quel tratto di strada mi sembra enorme, infinito. Mi chiedo come debba essere percorrerlo dopo aver aspettato tanto tempo. Mi sembra un’eternità. Sono fuori e tutto mi pare illuminato da una luce nuova: la gente mi sembra strana, per un momento credo davvero che tutti possano commettere un reato da un momento all’altro. Non vedo differenze. Me ne sto andando a casa tranquillo lasciando tutto quel mondo alle spalle, e domani avrò altre cose da fare e questo pomeriggio sarà un ricordo. Non riesco a essere indifferente, ma dall’altra parte non voglio farmi coinvolgere troppo. Nella testa il rock si mischia con le emozioni. Non mi resta altro che fare come mi hanno chiesto, spedirgli le foto e, ovviamente, raccontare la loro storia.
Arrivare dentro
Ho camminato fino alla pesante struttura del carcere, l’immensa costruzione inglobata dalla città, nascosta, ma allo stesso tempo visibile a tutti. L’ingresso è imponente, il viale d’accesso, via Raffaele Majetti, fa impressione per la sua larghezza e l’assenza di automobili, se non quelle della polizia penitenziaria e della volante dei carabinieri che arriva a sirene spiegate. Cammino vicino al muro di cinta non più alto di quello di una villa, vedo spuntare una rete da calcio. Seguo la recinzione fino all’ingresso del Nuovo Complesso. Da qui non si vedono celle o sbarre evidenti, sembra quasi di trovarsi davanti a un luogo come un altro. Controllano il mio nome, prendono il documento e dopo una rapida perquisizione sono dentro. Percorro un piccolo spiazzale da solo, poi, davanti a una grande porta blindata, che intuisco essere la vera entrata, mi aspettano alcune guardie pronte a portarmi nel luogo prestabilito. Sembrano quasi divertite davanti ai miei sguardi che si posano sulle porte di ferro, sui cancelli con le sbarre, sui monitor della sicurezza. Una di loro mi accompagna lungo un corridoio con pieno di trompe l’oeil sulle pareti per simulare rovine romane e di teche piene di reperti trovati durante la realizzazione della prigione. “Come le sembra?” mi chiede il secondino. “Qui quasi bello – rispondo – diverso da come s’immagina”. Sorride: “È quello che fanno vedere alle autorità, il resto non è così…non è male, ma…un po’ differente”. Annuiscono: “Tornerò a vedere il resto, allora” rispondo. Poco dopo sono fuori, in un grande, immenso cortile che per la cura architettonica sembra quasi la piazza di una tranquilla cittadina di provincia, con scale, panchine, vasi pieni di fiori. Davanti alla chiesa, rialzata da pochi scalini c’è una zona dove è stato allestito un palco. Nello spiazzo antistante non c’è ancora nessuno, ma i ragazzi sono già vicino agli strumenti a confabulare. È così che conosco i componenti del gruppo nato grazie al programma di Mtv, Rock in Rebibbia. Detenuti con la passione per la musica che hanno trovato il modo di evadere per qualche ora dalle loro celle. Se appena arrivato sono rimasto un po’ sulle mie è bastato poco a sciogliermi. Li avevo visti in televisione, avevo letto le loro storie, mi ero commosso. Dal vivo è stato più forte, un pugno nello stomaco. Perché la loro simpatia e il loro entusiasmo mi hanno subito coinvolto.
Musica d’evasione
I primi che conosco sono Valentino e Rocco, tastierista e bassista del gruppo, entrambi con indosso la maglietta del September Festival che organizza questo concerto, come molti altri in giro per Roma oggi per ricordare l’attentato dell’undici settembre. Subito mi raccontano la loro passione per la musica, scoperta grazie al programma che per quattro mesi ha portato grandi nomi del pop e del rock a esibirsi con loro, ma, soprattutto, gli ha dato modo di far conoscere le loro storie. “Siamo un po’ fuori forma, qualche accordo salterà di sicuro” dice Valentino, un ventiquattrenne simpatico e un po’ grassottello, coinvolgente con la sua allegria. “È da aprile che i maestri se ne sono andati e abbiamo provato poco – continua –. Ci sono sempre problemi organizzativi, è difficile ritrovarsi. Però vogliamo continuare, anzi, mi piacerebbe portare la band in tournèe. In molti ci apprezzano, ma ci sono stati cantanti che hanno detto: ‘come, noi tanti anni di gavetta e questi, il peggio della società, che si mettono a fare i musicisti su Mtv’. Per fortuna non la pensano tutti così”. Valentino è rumeno, della Transilvania, appena arrivato in Italia è diventato elettricista, poi ha perso il lavoro. Le difficoltà insormontabili l’hanno portato a provare la strada del crimine, ma è stato arrestato prima per truffa senza finire in carcere e poi è arrivata la condanna a tre anni per aver rubato un’auto. Ora ha capito che per il crimine non è proprio portato. “Siamo pronti per questo concerto per la pace” dice Rocco. Capelli brizzolati e pizzetto, un volto quasi cinematografico. Ha trentadue anni, ma sembra più grande, il carcere invecchia e lui qui ha passato dodici anni, dopo un tentativo di furto finito male, con la morte di un maresciallo. Allora era un ragazzo, adesso è un uomo ed è diventato il consigliere di tutti i ragazzi in difficoltà tra le sbarre. È serio e rassicurante allo stesso tempo, ti mette a tuo agio. Parlandoci non penseresti mai che ha ucciso un uomo. La sua storia davvero fa capire come basti pochissimo a cambiare la propria vita e a farsi ritenere un mostro da chi non conosce l’uomo dietro i gesti. Roberto è un chitarrista, 37 anni, capelli un po’ scarmigliati e occhiali, un passato da truffatore professionista, un presente da operatore per un call-center in carcere e studente di giurisprudenza. Per uno preciso come lui stare nel gruppo è stato bello, ma molto faticoso: “È difficile mettere insieme persone così diverse – racconta – perché qui ogni giorno ognuno ha uno stato d’animo. C’è chi è depresso, chi è triste perché ha appena lasciato la figlia e non sa quando la rivedrà. Eppure devi suonare lo stesso. La musica per noi è stato un bel pretesto per stare insieme, per conoscerci, per stare in una comunità. Perché alla fine noi siamo qui perché non abbiamo saputo stare con gli altri”. Col suo cappellino, la fascia la polso e i tatuaggi, tra cui spicca il nome di sua figlia, Matteo è il rapper del gruppo. Non solo, perché con due bacchette in mano riesce a tirare fuori l’anima dalla batteria. La canzone, scritta e rappata da lui, che apre il concerto rivaleggia e batte tutte le denunce dei cantati tanto di moda in Italia adesso. C’è verità nelle sue parole, nel suo grido universale di conquista della propria libertà, la volontà di esprimersi. “Raccontare le nostre storie le decriminalizza – mi spiega – non tutti hanno fatto un reato per il gusto di farlo. La musica è stata una grande esperienza, perché io ho sempre fatto il dj. Ora mi piacerebbe che il laboratorio diventasse permanente, perché alcuni di noi stanno per uscire e il gruppo perderà alcuni componenti”. Presto sarà fuori anche lui, dopo una dura reclusione per narcotraffico, cominciata con l’arresto e la detenzione per due anni in Ecuador.
Un pubblico, un mondo
Mentre parliamo il piazzale si è riempito di gente e il concerto deve cominciare. Insieme a un altro fotografo scendo tra la folla di detenuti per fare una foto da lontano. Non ci è permesso fotografare il carcere, né tanto meno le persone a parte i musicisti, quindi nelle foto sono tutti di spalle. Lì in mezzo mi rendo conto di essere in mezzo a gente comune, di diversa provenienza etnica e sociale, di diversa età, sono tanti i giovani e ci sono anche quelli vecchi, molto, molto vecchi, che ti aspetti di vedere in piazza o in un parco pubblico, non qui. Ci sono africani che ballano, e ci sono anche i transessuali. Vedo facce di persone normali, vestite con abiti di tutti i giorni. In Italia non si usa la divisa e io l’ho sempre trovato un segno di civiltà, anche se per chi non ha niente può essere un problema, ma per questo ci sono le tante associazioni di volontariato. Più tardi incontro anche una volontaria della Comunità di Sant’Egidio per mi racconta di lavorare a Rebibbia da dieci anni. Mi lascio trasportare dalle canzoni, recitate, ancora più che interpretate da Francesco, il cantante del gruppo e dalle sonorità degli altri componenti: solo con il nuovo chitarrista e con Nassik, il percussionista, non ho ancora parlato. Li fotografo mentre spaziano da Vasco Rossi ai Beatles, dai Pink Floyd a Lucio Battisti, e gli arrangiamenti sono quelli che gli hanno insegnati i maestri di Mtv, ma riescono a stupire chi li aveva già ascoltati con nuove sonorità e pezzi inediti. Davanti al palco, tra i detenuti, infatti, ci sono alcune ragazze che hanno partecipato alla produzione e al montaggio di Rock in Rebibbia. Conoscono bene i ragazzi, sono amici e confidenti ormai, e raccontano anche a me com’è stata l’esperienza. “Pesante, intesa, molo bella, ma indescrivibile – dice Lorena che lavora per la Wilder – è stata difficile sia dal punto di vista umano che lavorativo, ha richiesto tanto impegno”. Poi una canzone risuona emblematica: Lucio Battisti con “Il mio canto libero”. Cantata qui, a pochi giorni dall’anniversario della morte del cantautore, assume un significato tutto particolare. Poi, dopo un arrangiamento da brividi di “Another brick in the wall” finisce la prima parte del concerto. I ragazzi di Rock in Rebibbia lasciano il palco ai Four Vegas, gruppo rock anni trenta, che, spaziando dal twist al blues, fanno ballare un po’ tutti. Io ho l’occasione di conoscere qualche altro componente del gruppo. A partire da Francesco, il front-man della band, che veramente si è buttato anima e cuore nel gruppo, nonostante la terribile perdita del fratello qualche giorno dopo l’inizio delle prime prove, un duro colpo, che insieme agli otto anni per concorso in omicidio a causa del coinvolgimento in una rissa in cui è morta una persona, per lui “è la batosta più dura della mia vita e ne ho avute tante. Ma passerà anche questa”. Francesco si è sempre proclamato innocente, si dice rassegnato, ma sul palco tira fuori l’energia per cantare. “Qui si soffre in silenzio” mi dice e poi vuole vedere le foto che ho scattato. Allora arriva anche Nassik, nordafricano, che con i suoi 21 anni è il più giovane del gruppo ed è anche il più taciturno. Arrivato in Italia a sedici anni alla fine è rimasto coinvolto nel giro dello spaccio e in una rapina e il carcere l’ha inghiottito sottraendolo ai suoi familiari che non sanno che è qui. Gli scatto una foto insieme, l’unica posata della serata.
Un gruppo di amici
Poi ci godiamo il concerto e continuiamo a chiacchierare sia con loro che con gli altri del gruppo. In quel momento non c’era differenza tra noi e un gruppo di amici a uno spettacolo. La mia naturale tendenza a stringere subito legami me li ha mostrati subito per quello che erano, persone normali, come si definisce subito Francesco, “anche se molta gente non lo sa o non vuole vederlo”. Non ho pensato a quello che avevano fatto, a dov’erano in quel momento. Solo dopo ho riletto le loro storie per associarle ai visi, alle parole. Ed era molto difficile, perché dove gli altri vedono sentenze di condanna io ho visto persone. Non posso guardare i loro cuori, non posso sapere le loro vere intenzioni, ma lì ho pensato che davvero tutti meritano una seconda possibilità. Mi sono reso conto di che cosa assurda sia il carcere, il pensiero di uomini che tengono imprigionati altri uomini che hanno fatto del male ad altre persone. È terribile nella sua crudezza, nella sua ideazione. Necessario per la società, anche se si vorrebbe che così non fosse. Spesso ci dimentichiamo del patto che ci unisce tutti per creare uno Stato con le sue leggi, dimenticandoci le basi, da dove siamo partiti, e cosa rischiamo se infrangiamo le regole. Del carcere ci si vuole dimenticare, invece dovrebbe essere parte integrante della vita, proprio per trovare un modo di superarlo. Questo concerto sta a dimostrare che un errore non può pregiudicare una vita. Ne è convinto anche il direttore del penitenziario di Rebibbia, Carmelo Cantone, che sulla rieducazione ha basato la vita del carcere. “I ragazzi hanno suonato benissimo – mi dice poco dopo la fine del concerto – ormai Rock in Rebibbia è un marchio di fabbrica. Questa esperienza è importante per dare un senso alla vita in carcere e continuerà insieme ai tanti laboratori che sono già avviati: il teatro e i corsi manuali, quello multimediale e altri. Il programma di Mtv – spiega – è stato molto positivo anche per la società, perché ha mostrato uno spaccato del carcere che ha fatto riflettere molti. Non è facile gestire una comunità così grande, persone così diverse”. Gli dico di essere rimasto colpito da quello che ho visto in cortile: “Sì, ci sono vecchi, ma anche tanti, tanti giovani, questo dispiace, sì, ma è da loro che dobbiamo partire per ricostruire la società”. Il concerto finisce quasi all’improvviso e il senso di vuoto è spiazzante. Il cortile si svuota e i detenuti tornano in cella, la vita del carcere deve riprendere, come sempre. Saluto i ragazzi della band che mi hanno fatto vivere un pomeriggio speciale. Spero di rivederli, di sentire come continuano le loro storie. Per ultimo parlo con Al Bianco, cantante dei Four Vegas che per descrivere l’esperienza non può che usare l’aggettivo preferito del gruppo: entusiasmante. “Cantare davanti a un pubblico così non solo è stato emozionante, ma anche costruttivo. Spero davvero di poterlo rifare”. E i ragazzi di R‘N’R? “Loro sono fantastici! Non potevo credere che quel rap all’inizio l’avessero scritto loro, è davvero incredibile, sono bravi”.
Uscire fuori
Una guardia penitenziaria mi riaccompagna per il lungo corridoio verso l’esterno. La mente e il cuore sono pesanti, i pensieri si aggrovigliano, i sentimenti sono contraddittori. Il prima e il dopo è diverso. Raccontarlo non basta, bisogna viverlo. Cammino nella strada che costeggia le mura. Sento delle voci provenire dal campo di calcio, o forse me le sono immaginate, chissà. Ora ho visto cosa c’è oltre quella barriera. Quel tratto di strada mi sembra enorme, infinito. Mi chiedo come debba essere percorrerlo dopo aver aspettato tanto tempo. Mi sembra un’eternità. Sono fuori e tutto mi pare illuminato da una luce nuova: la gente mi sembra strana, per un momento credo davvero che tutti possano commettere un reato da un momento all’altro. Non vedo differenze. Me ne sto andando a casa tranquillo lasciando tutto quel mondo alle spalle, e domani avrò altre cose da fare e questo pomeriggio sarà un ricordo. Non riesco a essere indifferente, ma dall’altra parte non voglio farmi coinvolgere troppo. Nella testa il rock si mischia con le emozioni. Non mi resta altro che fare come mi hanno chiesto, spedirgli le foto e, ovviamente, raccontare la loro storia.
Foto: (Il gruppo di Rock in Rebibbia; Matteo; Francesco; Rocco; Nassik; I Four Vegas; Francesco e Nassik; il direttore Carmelo Cantone)
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